Saturday, August 19, 2006

Marco Lodoli, "La notte"

Racconto lungo di Lodoli, meno surreale - un po' meno - di altre sue cose; ben scritto, come sempre, con il consueto, abile equilibrismo tra lirismo e ironia, assicurato anche stavolta dagli elementi di irrealtà contenuti nella vicenda.

La vicenda è esile: si racconta in flash back la storia di Constantino,
mentre costui viene portato in giro per Roma, di notte, da due figuri,
dipendenti come lui del misterioso Pazzo; e Costantino pensa che i due siano incaricati di ucciderlo. Il protagonista è un uomo inquieto, semplice, ingenuo (un po' deficiente, diciamolo), attraverso le cui sensazioni Lodoli tesse descrizioni e immagini che, assieme all'equilibrio della lingua, sono la sostanza di questo breve
romanzo.

Costantino consegna pacchetti per conto di questo misterioso Pazzo -
presumibilmente una specie di boss - che gli manda le istruzioni su foglietti scritti con una prosa ampollosa e talvolta filosofeggiante. In séguito Costantino viene incaricato di curare il parco della villa del Pazzo, parco dal quale non può uscire; e gli vengono affidati prima un cavallo, poi un falco, infine un lamantino di cui Costantino si innamora.
L'innamoramento con questa sirena è la situazione che, più di ogni altra, evidenzia il conflitto tra il mondo interiore, surreale, di Costantino e la crudezza della realtà in cui vive. Inoltre questa ambigua e impossibile 'relazione' non può non ricordarmi i rapporti tra i marinai e i meravigliosi e indefiniti esseri marini in La stiva e l'abisso di Michele Mari.

Taccio l'esito, ancora più surreale.

Come ho già detto, Lodoli continua a giocare con l'ambiguità tra lo scrivere non-storie (incentrando il suo lavoro su toni, atmosfere e descrizioni) e il
rifiuto di fare formalismo tout court. In La notte però questo
equilibrio si sposta a favore del lirismo e della coerenza della trama;
quindi meno ironia, meno invenzione, meno situazioni fantastiche. E il
risultato è forse più debole (rispetto per esempio a Il vento).
Resta un percorso sicuramente originale, nel panorama letterario italiano.
(Grazioso dipinto di Di Stasio in copertina (non dei peggiori).)


Postilla: a ripensarci adesso, diversi anni dopo aver scritto questa scheda, La notte me lo ricordo assai migliore di quanto non appaia qui sopra. Evidentemente quella scrittura è capace di lasciare certi ricordi e certe impressioni, e non è una cosa da poco.

Papiro e moschetto

Settecento e rotte pagine più appendici e indici corposi. "Il papiro di Dongo" (Adelphi), ultima e recente opera di Luciano Canfora, è un librone. Un librone che parla della storia della Papirologia italiana durante il Ventennio e fino ai primi anni '50.
Argomento molto specialistico, no? Roba strettamente riservata ai filologi, parrebbe. Eppure io che di papirologia non sapevo niente, di filologia pressoché idem, l'ho letto rapidamente e con soddisfazione (e nemmeno sono culturalmente masochista, almeno in questo caso). Come mai? Me lo sono chiesto.

Il libro di Canfora è un libro di storia a tutti gli effetti; il resoconto di una ricerca storica puntuale e meticolosa, col minuzioso esame comparativo delle fonti e tutti gli altri crismi. E tuttavia è anche un grande racconto: senza nulla concedere all'aspetto narrativo o all'aneddotica, Canfora ripercorre le vicende professionali, politiche e - in parte - personali dei maggiori filologi italiani di quel periodo: il lavoro sui papiri (trascrizioni e traduzioni), i contatti internazionali, gli scavi archeologici, le lotte e le bassezze finalizzate al prestigio personale e alla gestione delle cariche accademiche e delle cattedre.
"Il papiro di Dongo" esamina soltanto queste vicende. Tuttavia è avvincente. Come mai?
La risposta che mi do non sta solo nella capacità narrativa di Luciano Canfora (che di opere divulgative e ne ha scritte tante); no, secondo me la risposta sta nel fatto banale ma raramente ricordato che la storiografia è anche narrazione; è cronaca; è racconto. Il rigore scientifico e l'obbiettività non escludono necessariamente questo aspetto: la storiografia è narrazione, e può esserlo anche quando è fatta bene (non solo, cioè, quando è mistificazione ideologica).
Certo, le vicende narrate, in questo caso, hanno in sé una certa ricchezza: principalmente il fatto che si inseriscono nel Fascismo, nell'amministrazione delle Università da parte del regime, nei maneggi di potere per ottenere fondi, promozioni, cattedre, pubblicazioni. Non a caso i personaggi costantemente sullo sfondo delle vicende narrate sono Gentile e Bottai, ovvero il filosofo più vicino al regime mussoliniano e il ministro della cultura fascista.

In primo piano, invece, ci sono i filologi: Medea Norsa, Girolamo Vitelli (fino alla sua morte nel 1932), Goffredo Coppola, Achille Vogliano. Nelle storie di questi studiosi di fama internazionale ci sono anche due diversi modi di rapportarsi con il regime: quello di chi cerca di avvicinarvisi il più possibile e cavarne vantaggi personali (Coppola, Vogliano) e quello di chi lo accetta chiudendo gli occhi e cercando di non averne svantaggi (ma senza entusiamo). Il campione dell'opportunismo, della meschinità, della scorrettezza e dell'ambizione è Achille Vogliano: dopo averne lette le 'gesta' durante il Ventennio, fa veramente impressione vedere il modo in cui, dopo il 25 aprile '45, tenta di difendersi dall'epurazione e di riciclarsi in un memoriale che Canfora analizza spietatamente (per altro sia Vogliano che moltissimi altri accademici italiani profondamente compromessi col regime fascista riescono a uscire alla fine sostanzialmente intoccati dal cambio di regime).
Tra quelli che dal Fascismo rimasero distanti, pur senza opporvisi, ci sono invece Girolamo Vitelli (decano dei papirologi italiani, già senatore giolittiano e 73enne all'epoca della marcia su Roma) e la sua allieva e collaboratrice Medea Norsa; quest'ultima è una figura che esce davvero gigantesca dalla ricostruzione di Canfora; e tuttavia, dopo la morte di Vitelli, sarà continuamente mortificata e ostracizzata (pur essendo la maggiore studiosa nel suo campo, non avrà mai una cattedra e finirà cacciata senza ragione anche dall'Istituto papirologico fiorentino ove aveva lavorato tutta la vita), e ciò accadrà solo in minima parte a causa dell'origine ebrea del padre (le peripezie burocratiche che la Norsa affronta per uscire indenne dalle leggi razziali del '39 hanno del grottesco: una perla è la richiesta, da parte del Ministero di Bottai, del certificato di nascita della madre per stabilirne "l'italianità": senonché la madre della Norsa, triestina, è nata e morta in territorio asburgico ancora 'irredento'!)
L'ultimo protagonista dello spaccato storico di Canfora è Goffredo Coppola. E' un caso a sé stante: arrivista e ambizioso ma anche sinceramente entusiasta sia nelle idee politiche che nel lavoro filologico, Coppola è per molti anni vicino al suo maestro Vitelli e alla Norsa. Ma è anche sempre più legato al Fascismo; e dal '37-'38 la sua ascesa politica nel regime è costante, non solo come corsivista del "Popolo d'Italia" (dove pubblica articoli così violentemente antisemiti da far impallidire Goering) ma anche come dirigente politico spietato e cinico; soprattutto dopo l'8 settembre 1943 e nella breve parabola della RSI. Infatti Coppola, ormai considerato un cieco fanatico anche all'interno del Partito Fascista, muore fucilato a Dongo assieme ai dirigenti superstiti della Repubblica Sociale (ma anche per lui non mancherà un tentativo di riabilitazione postuma - politica e non professionale -già nei primi anni del dopoguerra). E' ovvio aggiungere che la sua amicizia e collaborazione con la Norsa diventa ostilità a partire dal '37-38.
Ed è nel quadro di questa amicizia divenuta ostilità che si percorre infine la vicenda dell'ultimo protagonista del libro di Canfora: il papiro che dà il titolo all'opera. In realtà questi frammenti delle "Elleniche" sono più che altro un casus belli, sia sul fronte accademico che su quello dei rapporti personali: ne lascio la vicenda, dal ritrovamento nel '33 al dopoguerra, agli eventuali lettori; così come lascio volentieri a chi lavora nell'università il raffronto tra la meschinità di quegli anni e la situazione attuale: si invita semmai a darne spassionato resoconto.

Tuesday, August 01, 2006

Francesco Guccini, "Croniche epafàniche" e "Vacca d'un cane"

Dei primi due volumi di affabulazioni autobiografiche del pavanese/modenese Guccini è difficile che io possa parlare con una qualche obiettività, a causa dell'affetto che porto per certi dei luoghi, delle cose, della cultura narrata. Pazienza.
In Croniche epafàniche il Guccini racconta l'infanzia pavanese (Guccini è del '40), nel mulino degli zii, durante la guerra e un po' anche dopo (molte estati là trascorse, anche dopo il trasloco in Modena). Non c'è una storia e nemmanco un filo cronologico, nel racconto; o, se ce n'è, si perde in un divagare per aneddoti, parentame, oggetti, parole, sapori (e non sto parlando di un difetto, per questo che fu il primo libro vero e proprio del cantautore emiliano).
Ci sono gli americani, che arrivano e portano e lasciano tonnellate di roba (per lo più esplosiva, ma mica solo quella); roba usata e riciclata poi per anni, in molteplici usi. Degli americani 'un si butta via nulla, si direbbe. ("Poi la guerra è finita, e gli americani l'hanno vinta. E noi? No, noi dice che s'è persa. Maaa?! O non si stava tutti dalla parte degli americani, noi?")
Poi c'è il fiume, il paese, le persone e la montanarità allegramente grezza e schietta che il cantastorie si porterà appresso sempre, fino ad oggi, con fiera e ironica evidenza. Il tutto nell'affabulazione ricca di dialetto (dubito che chi non conosce quella parlata là possa leggere colla giusta intonazione - ehm - semantica quel testo) che costruisce un affreschetto modesto e privo di pretenziosità (sempre la qualità maggiore del Guccini, questa mancanza di pretese) di quella che è la sua mitologia personale (quella che ciascheduno ci ha la sua, no?, e chi non ce n'ha, poeretto lui), quella dei luoghi e delle persone dell'infanzia - fortificata nel caso di FG dall'aver lasciato i luoghi della prima infanzia, e averli poi ritrovati.
E' un racconto bellissimo - sono di parte, son di quelle parti - e sa il cielo se è difficile trovare descrizioni della provincia natia che non esondino retorica e proprie seghe.
"Vacca d'un cane", il secondo libro, è invece la fanciullezza e adolescenza modenese del Noster, nella periferia di una provincia del dopoguerra, ovattata dal nebbione e doverosamente costellata delle monelerìe del ragazzino un po' grezzo ma mica fesso, e adeguatamente crudele; dalle figurine e dalle gare coi tappi fino alle ragasine, le mine; dai primi cinemi al rochenrol, co' 'sto mito americano amaramente irraggiungibile.
Fino alla luce della rivelazione, dopo la visione di un filme con Elvis: ragazzi, se facciamo un complesso anche noi si intorteranno più troglie di sicuro!
Poi verso la metropoli bulogneise, a suonicchiare nei locali e cercar figa -costante ovvia - fino alla chiusa del ragazzotto montanarprovinciale che, mentre si spella sul palco di un localino, si vede guardar di sopra in sotto da una bella mina universitariamente aristocratica che aveva frequentato, e si dice "col cazzo che farò 'sto mestiere tuta la vita!"
La dote di questi librini giocosi - sono di parte, già lo dissi - è nel modo vero, ironico e fintamente naif con cui il Guccini racconta quel suo ambiente della memoria, con quella affabulatoria poesia che sa cantarle (appunto) giuste senza darsi troppa importanza. Non è mica una prosa naif: è costruita e consapevole; però funziona, perché, come dire, lo stile aderisce come un guanto al contenuto.
L'ultimo capitolo della saga autobiografica di Francesco Guccini è "Citanova blues"; ma non l'ho mia ancora letto!

Monday, July 31, 2006

Antonio Faeti, "Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l'infanzia"

Non è qui che è cominciata, disegnata e poi mirata,
l'avventura dei disegni che spalancavano i regni.
Molto addietro - ma parecchio - prima ancora della stampa
le parole han reclamata raffigurata lor vampa
- e non solo per i pupi o i racconti dei pupari.

Tuttavia il resoconto di Faeti Antonio (trenta
anni fa prima impressione, ora la nuova edizione:
quattrocento pag e rotte - ebbe già svariate laudi -
dodic'euro e quasi mezzo - negli Struzzi dell'Einaudi)
che dicevo? Ah, il Faeti: in "Guardare le figure"
parla degli illustratori per bambini: chiare e scure
tavole su fiabe e storie, da metà dell'Ottocento,
infra i libri italiani (ma dimolti eran toscani).

Del distinguo tra i disegni, nelle righe galleggianti,
e le tavole imponenti (tutta pagina, giganti,
con due righe in calce, prese via dal testo) non so dire
con 'sti cazzo d'ottonari. Sol che i primi, senza mire,
fan le pagine leggere; le seconde, storie intere;
altre storie dalle storie; ipertesti immaginari.
(Anche troppo. 'Sto sollazzo m'ha già bell'e rotto il tratto della corteccia cerebrale preposto alla pazienza.)

Epperò: i figurinisti (illustratori malvisti):
C'è il Mazzanti, Dorè-iano, cupo e un poco claustrofobico.
Ed il Piattoli pittorico (bianchennero), molto orobico.
Ovviamente invece il Chiostri, anche quando fa dei mostri,
è proprio tutt'altra cosa. Va be', 'nsomma, ce n'è a iosa.
Dirò sol del salgariano Gamba, dal tratto sultano.
(Ma di questo - e di quegli altri - potria dir ben altro e meglio
l'illustre dottor Farina, se non ha da far di meglio.)
(Dio, che schifo questa rima! Mi s'impicca l'autostima.)

Né si può tacer Golia, Cambellotti, Yambo, Rubino,
tutti liberty (dell'ultimo, lunga vita a Quadratino).
La raccolta del Faeti cita Tofano, Bioletto,
Toppi, Natoli, Molino; e non manca il più perfetto:
quel Gustavo Rosso, detto Gustavino, dalla penna
magicante e spiritata (questa è un poco enfatizzata).

Ovviamente cambia tutto, pei lettori e pei suddetti,
nel momento che s'affacciano e dilagano i fumetti.


[Antonio Faeti, "Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l'infanzia." Einaudi 2001.]

Wednesday, July 12, 2006

Tessere su "La vita istruzioni per l'uso"

le  perplessità di
***, nel leggere
IL libro di perec, sono
probabilmente condivise
da parecchi di quelli
che provano a leggerlo.
nessun intento di confutare
il de gustibus: il degustibus
è giustibus; e senza dubbio La
Vita Istruzioni Per L'Uso non è
per tutti, benché opera 'unive
rsale'. Non per tutti ma for
se per molti; per mari
e molti (per
Mari di s
icuro).

non
ci sono
solo elenchi
e descrizioni,
in LVIPLU; ci
sono molte
storie;
ci sono al
meno 179 storie (a gruppi di 60,
monco il terzo - ci mancherebbe!). alcune
storie complicate e appassionanti, altre
semplici aneddoti di quotidianità. (le almeno
179 storie sono elencate nel capitolo 60, ca
pitolo piuttosto illuminante per vari aspet
ti). tutte le storie, come
gli oggetti e i
personaggi,sono
intrecciati nei luoghi
del palazzo parigino che è la
'capitale' e il centro dell'universo LaVIPLUiano.
volendo dare UNA possibile chiave di lettura del
testo (intento perigliosissimo e consapevolmente ri
duttivo, trattandosi di un'opera-mondo), io direi
che LVIPLU racconta la straordinarietà,
la complessità e la ricchezza
del quoti diano(1).


la struttura casual-matematica
che genera le storie, il loro in
trecciarsi e il modo di raccontar
le si deduce dagli appunti di per
ec; ma conoscerla è solo un
approfondimento, uno scavo
non necessario alla pri
ma lettura (uno scavo
che per altro non rivela tut
to). Lo scavo può aver senso in q
uanto può far conoscere altre parti de
ll'universo LaVIPLUiano; non ha molto s
enso se serve a farne il censimento o
la collezione da fan-atic. ma il punto
è che una lettura solo da esegeti o
ermeneuti è sbagliata (2) (
abbastanza ovvio,neh).


insomma,
"La vita, istr
uzioni per l'uso"
non ha bisogno
di istruzioni
per l'u
so.

comunque la presenza massiccia
del caso, di accurati randomizzatori
di elementi narrativi, è - imho - qual
cosa di più dell'intento di mascherare
da gioco la struttura dell'opera:
il caso, nel testo. è anche la
riproduzione artificiosa del
modo di attuarsi, nella
realtà, della straordinarietà del
quotidiano. qualcosa che ricorda il "rag
gio verde" di rohmer - vagamente - in ce
rto senso - no, anzi, meglio cancellare
rohmer: non fa chiarezza, direi.
il gioco,il caso; il
ruolo del caso
nei giochi, il
ruolo del caso ne
lle vicende di
tutti i giorni
(ecco).

per meglio
dire, l'accost
amento e l'inter
secarsi di tante
vicende, persona
ggi, oggetti
mette in
evidenza
la continuità
tra ciò che è banale e ciò
che è sin golare; e la possibi le tesi
(1) è che tutto è singolare e niente è straordi
nario, nell'insieme. ogni tessera conta, e i gi
ochi, beh, i giochi sono una cosa seria
quanto le altre, nella realtà
quotidiana.
(e comu
nque
gli ele
nchi sono
una lettura
_potenziale_
bellissima,
altro
che.)



c'è poi il modo di raccontare:
perec narra le sue storie in modo
sempre distaccato: non proprio
cronachistico: piuttosto senza
giudicare: le vicende -
e gli oggetti
- parlano
da soli.
tuttavia
è indubbio
che, per dire, del
pittore famoso si capisce
l'ambizione, la furbizia e la
spregiudicatezza; mentre l'art
igiano Winckler non ha in sé
nient' altro che integrità,
scrupolosità, precisione,
zelo; e anche nella
storia grottesca
del critico d'arte
che cerca in tutti
i modi di acquistare i
puzzle di bartlebooth perec
dice la sua (e prende in giro
non velatamente il sistema del
mercato e della critica
d'arte del suo tempo).


tutto
ciò si poteva
raccontare meglio?
ne dubito. chi lo
pensa,faccia esempi.
fatto sta ("fatto",
si fa per dire)
che un univer
so così ri
ccamente popolato
creato mantenen do in eq
uilibrio forma e contenuto
(e con una forma così macr
oscopicamente prot agonista,e
per certi aspetti rigida e vin
colante) costituisce un'impresa pres
soché unica e fa del testo un classico
della letteratura e la mappa di un
mondo che sta agli antipodi del
la Plotlandia ove dimora la
gran parte degli
scrittori.

p.b.

(1) naturalmente ciò è falso e quindi lo nego.

La struttura compositiva de "La vita, istruzioni per l'uso"

La struttura compositiva dell'opera di georges perec - che è nota da tempo, e che fu illustrata anche dall'autore - disvela la maggior parte degli interrogativi sul testo, anche se in un modo forse un poco deludente, per chi non conosceva tale struttura.

La vita, istruzioni per l'uso è un romanzo oulipiano. contiene tutti gli esperimenti e gli intenti di perec e degli altri 'seguaci' della letteratura potenziale. Perec lo concepisce e lo realizza come opera 'universale', il cui atlante e centro è il palazzo all'1 di rue Simon-Crubellier, visto il giorno 23 giugno 1975, verso le 20. Anzi, Perec usa una sezione, uno spaccato di questo palazzo di 9 piani più le cantine, e lo immagina diviso in dieci colonne verticali. In pratica una scacchiera 10x10 è lo schema in verticale del palazzo; ed ogni capitolo del libro descrive uno dei 100 luoghi del palazzo corrispondenti alle 100 caselle (anzi, i capitoli sono 99, dato che la cantina in basso a sinistra viene saltata(*)).

prima questione: in che ordine descrivere i luoghi del palazzo (e le storie da essi generate)? perec sceglie un criterio matematico per avere un ordine né casuale né troppo elementare e visibile (un imperativo tipicamente oulipiano): prende una delle soluzioni del noto problema enigmistico-scacchistico di percorrere una scacchiera, tutte le case, senza passare due volte su alcuna, con il cavallo degli scacchi, e la applica alla sua scacchiera 10x10. i 100 movimenti di questo cavallo danno l'ordine dei capitoli di LVIPLU attraverso il palazzo. Parte dalle scale e finisce nelle stanze di Bartlebooth. (ogni volta che il cavallo tocca i quattro bordi della scacchiera finisce una parte del libro, che è diviso così in 6 parti)

Cosa ci va dentro questi 100-meno-1 luoghi?
Perec stila un elenco di 21 coppie di categorie (posizione-attività, citazione1-citazione2, numero-ruolo, terzosettore-movente, muri-pavimenti, epoca-luogo, stile-arredi, lunghezza-diversi, età&sesso-animali, vestiti-tessuti(tipo), tessuti(materiali)-colori, accessori-bijoux, letture-musiche, quadri-libri, bevande-alimenti, piccoliarredi-giochi&giocattoli, sentimenti-pitture, superfici-volumi, fiori-soprammobili, manque-faux, coppie 1 e 2). per ognuna di queste 42 categorie perec sceglie 10 elementi, ottenendo così 420 elementi che saranno presenti, in qualche modo, nei capitoli del libro.

alcune delle categorie sono particolarmente 'forti'. i ressort, per esempio, danno spesso l'impronta ai capitoli dove sono presenti; la categoria 3°settore indica poi uno stile di scrittura 'tecnica' (per es., ricette di cucina,
terminologia bibliografica, manuali tecnici, programmi etc.). una categoria, 'lunghezza', impone il numero di cartelle relative a quel capitolo. vi sono poi due meta-categorie: manque e faux: sono due regole che impongono, quando presenti, di variare rispetto alle altre categorie; una specie di jolly.
in pratica, dividendo le 40 categorie (tutte eccetto manque et faux, appunto) in gruppi di 4 si hanno 10 gruppi di categorie che sono gli elementi a cui si applicano le regole manque e faux (manqu permette di non rispettare la presenza di una delle categorie, faux permette di cambiare l'elemento della categoria).

perec vuole che in ognuno dei 99 capitoli del suo romanzo sia presente un elemento di ciascuna delle 42 categorie. deve quindi distribuire questi 420 elementi sulla sua scacchiera. e vuole farlo, ovviamente, in modo né casuale né ordinato.

per far ciò crea, per ogni coppia di categorie (sono a coppie, appunto), una matrice 10x10 composta dagli accoppiamenti dei 10 elementi di ciascuna delle due categorie. ottiene così 21 matrici 10x10.
sovrapponendo queste matrici alla scacchiera (anzi, dato che la scacchiera è lo spaccato verticale del palazzo, si ha un'immagine più evidente se si pensa di accostarle in verticale come libri su uno scaffale) si ottiene che ad ogni casella della scacchiera (che è un luogo fisico nel palazzo) corrispondono 21 coppie di elementi, cioè 42 elementi. (in questo modo, tra l'altro, il palazzo riacquista in un certo qual modo la sua profondità -impressione mia ;-))

prima di far questo però perec dà un'altra rimescolata-non-casuale: non vuole che le matrici siano tutte uguali; non vuole che in ciascuna l'elemento (1,1) sia (a,A) (dove a e A sono elementi delle due categorie della coppia). allora realizza 21 permutazioni diverse della matrice base 10x10, in modo che sia rispettata la regola di non avere elementi ripetuti in alcuna riga o colonna. Il criterio per effettuare le permutazioni viene mutuato dalla struttura della "quenina", che è una regola di ricorsività delle rime creata da queneau guardando le rime delle sestine del trovadore Arnaut Daniel. è una regola algoritmica semplice (non sto a spiegare, è lungo anche se è semplice).
insomma, in questo modo Perec ottiene queste 21 matrici 10x10 che gli permettono di distribuire 42 elementi in ciascuno dei suoi 100meno1 capitoli.

A questo punto Perec ha 99 elenchi, uno per capitolo, che chiama i suoi "cahier des charges".
Da questi 99 fogli nasce La vita, istruzioni per l'uso. Naturalmente molte delle storie erano state ideate o trascritte da perec in precedenza. La vicenda di Bartlebooth l'aveva ideata nel 1969, per es., risolvendo un puzzle su una veduta del porto di La Rochelle. Ma molte altre storie, situazioni, personaggi, nascono da combinazioni enigmistiche o oulipiane evocate dagli elenchi. Nascono proprio meditando sugli elenchi (e, via via, sull'insieme della costruzione romanzesca che si va edificando un capitolo dopo l'altro). Molti degli spunti dati dagli elementi non sono identificabili dentro i capitoli; altri sono ben evidenti.
Ma è proprio l'idea di ciò che può essere evocato da una lista che sta a monte dell'idea compositiva de LVIPLU: una lista come un puzzle da comporre/creare, fatta di elementi reali e regole arbitrarie: un'idea fortissimamente perecchiana.

Una nota specifica riguardo ai capitoli 3, 29 e 93, particolarmente misteriosi per la vaghezza dei fatti e delle persone che vi soggiornano: il relativo cahier des charges contiene vari indizi del "significato" di questi tre capitoli che parlano dell'appartamento Foureau; ma l'indizio più forte è la presenza dei ressort "resoudre une enigme" e "creer" (il terzo manca, faux). Le citazioni relative a questi capitoli forse danno altre indicazioni, ma non ne conosco le fonti e non ho voglia di andarle a ripescare, al momento.
ma il capitolo 3 è quello in cui il ressort "resoudre une enigme" marca di più la storia. ed è la ragione del mistero di questo appartamento vuoto dal locatario irreperibile, a mio parere.

(*) doveva essere il capitolo 66 a parlare della cantina in basso a sinistra, accanto a quelle di Bartlebooth. ma, come accade alla serie dei puzzle di bartlebooth, uno dei pezzi non va al suo posto

nota: le informazioni e le immagini sono tratte da Cahier des charges de La vie mode d'emploi, Cnrs Editions - Zulma, Paris 1993

da La vie mode d'emploi:
"(...)Bartlebooth, in altre parole, decise un giorno di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé.
"L'idea gli venne quando aveva vent'anni. Fu sulle prime un'idea vaga, una domanda che si poneva: cosa fare?, una risposta che si abbozzava: niente. Il denaro, il potere, l'arte, le donne non interessavano Bartlebooth. Come neanche la scienza, né il gioco. Tutt'al più le cravatte e i cavalli o, se preferite, imprecisa ma palpitante sotto queste futili apparenze (anche se migliaia di persone ordinano efficacemente la loro vita intorno alle cravatte e in numero ancora maggiore intorno ai cavalli della domenica), una certa idea di perfezione.

"Che si sviluppò nei mesi, negli anni a seguire, articolandosi intorno a tre principi direttivi: "Il primo fu di ordine morale: non si sarebbe trattato di un'impresa o di un record, né di una cima da scalare o di un abisso marino da raggiungere. Quello che Bartlebooth avrebbe fatto non sarebbe stato spettacolare né eroico;
sarebbe stato semplicemente, discretamente, un progetto, difficile certo, ma non irrealizzabile, controllato da cima a fondo e che, in compenso, avrebbe dominato, in ogni suo particolare, la vita di colui che vi si sarebbe dedicato.

"Il secondo fu di ordine logico: senza alcun ricorso al caso, l'iniziativa avrebbe fatto funzionare tempo e spazio come coordinate astratte in cui si sarebbero iscritti con una ricorrenza ineluttabile degli avvenimenti identici
inesorabilmente prodotti da una certa data, in un certo luogo.
"Il terzo, infine, fu di ordine estestico: inutile, essendo proprio la gratuità l'unica garanzia del rigore, il progetto si sarebbe distrutto da solo nel corso stesso del suo divenire; la sua perfezione sarebbe stata circolare: una successione di avvenimenti che, concatenandosi, si sarebbe annullata: partito da zero, Bartlebooth allo zero sarebbe tornato, attraverso trasformazioni precise di oggetti finiti.

"Così si organizzò in un concreto programma che possiamo in succinto enunciare così:
"Per dieci anni, dal 1925 al 1935, Bartlebooth si sarebbe iniziato all'arte dell'acquerello.
"Per vent'anni, dal 1935 al 1955, avrebbe viaggiato in lungo e in largo, dipingendo, in ragione di un acquerello ogni quindici giorni, cinquecento marine dello stesso formato (65x50, o 50x64 standard) raffiguranti porti di
mare. Appena finita, ciascuna di quelle amrine sarebbe stata spedita a un artigiano specializzato (Gaspard Winckler) che incollandola su un foglio di legno sottile l'avrebbe tagliata in un puzzle di settecentocinquanta pezzi.
"Per vent'anni, dal 1955 al 1975, Bartlebooth, tornato in Francia, avrebbe ricomposto, nell'ordine, i puzzle così preparati, in ragione, di nuovo, di un puzzle ogni quindici giorni. Via via che i puzzle sarebbero stati ricostruiti, le marine sarebbero state ristrutturate in modo da poterle scollare dal loro
supporto, trasportate nel luogo stesso in cui - vent'anni prima - erano state dipinte, e immerse in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che il foglio di carta Whatman, vergine e intatto.

"Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant'anni, aveva completamente mobilitato il suo autore. (...)"

Queste pagine di "La vita, istruzioni per l'uso" descrivono l'esile vicenda attorno alla quale Perec costruisce il vasto universo fatto di centinaia di altre storie e personaggi migliaia di oggetti, descritto anatomicamente e
tuttavia con straordinaria intensità poetica.

In scena Manganelli

Giorgio Manganelli, Il personaggio, Archinto editore

Archinto annunciava nel 2002 la pubblicazione delle opere teatrali di
Manganelli, inedite. Che sarà mai? Qualche cartella cavata dall'archivio di
Pavia? Boh.

Comunque è uscito intanto questo atto unico, monologo, scritto da GM per il Regio di Torino e mai messo in scena. Titolato Il personaggio e destinato, forse, a Paolo Bonacelli, è un'unica corsa di una voce che si fa più voci e più figure, e tocca i classici del cambio di persona: Anfitrione, Don Giovanni, Così fan tutte, I Menecmi, Tanto rumore per nulla: l'unico attore sulla scena di questa opera di Manganelli porta avanti infatti un ininterrotto dialogo di cui recita entrambe le voci, e le cui voci mutano continuamente.

L'ambiguità dell'identità è assoluta, ed è anche il tema, a volte autoreferenziale, del testo.
Come sarebbe la messa in scena di quest'opera? Un'ulteriore citazione (dal finale dell'Avaro) mostra come l'idea dell'ambiguità del personaggio messo in scena sia stata pensata per convergere, tra tanti riferimenti letterari, verso la finzione della rappresentazione teatrale stessa, e per colpire quella; e gli
spettatori, attraverso quella.
Il grande tapiro giocoliere aveva colpito ancora.

(2002)

La letteratura secondo Franchini

Antonio Franchini, Quando vi ucciderete, maestro? Marsilio

Romanzo, saggio, biografia? Le tre cose assieme. Questo che è il terzo
libro di Franchini è ad un tempo un saggio sulla letteratura, un insieme di storie a aneddoti su personaggi che escono dal mondo delle arti marziali, e anche un po' di autoracconto sulla formazione, sportiva e letteraria, dell'autore (di cui mi accingo uora uora a leggere pure l'ultimo lavoro, "Gladiatori").

Ma il nocciolo vero di questo libro è l'idea che Franchini ha della letteratura e di come essa abbia a che fare (debba avere a che fare) con la vita. Tutto ciò è detto tracciando un intenso parallelo tra la letteratura e le arti marziali (non c'è niente da ridere, OK?).

Il risultato è notevole, sia per originalità che per acume; anche molto godibile, dato che Franchini dice ciò che ha da dire attraverso l'aneddotica e le osservazioni en passant - e ovviamente con la sua eccezionale capacità di raccontare.
Però è condivisibile solo in parte, questo risultato - e cioè l'idea che AF ha della letteratura.
Questa idea, il Franchini scrittore-guerrieroperfinta, la fa trapelare poco
a poco qua e là, senza dirla esplicita, pane al pane, Enervit all'Enervit e diet-coke alla diet-coke.
Però ad un certo punto mette lì due emblemi di modi opposti (dice lui) di
intendere la letteratura: il Manganelli di "La Letteratura come menzogna" e
il Michel Leiris di "La letteratura considerata come tauromachia": da una
parte l'esaltazione, contrita e funambolica, della finzione (stilistica ma
non solo), dall'altra il proclama dell'autobiografismo più schietto e sincero e diretto.
Tra i due 'campioni', Franchini parteggia decisamente per Leiris (senza dirlo expliciter), ma lo fa liquidando con un po' di superficialità il grandioso barocchismo stilistico di scrittori come appunto Manganelli.
D'altra parte, tra le molte osservazioni acutissime di questo libro c'è anche quella in cui si nota come tanto il racconto narrativo quanto il combattimento in palestra siano in effetti la simulazione di qualcheccos'altro, e di come i relativi praticanti ne abbiano in fondo la consapevolezza: osservazione che dà senso alla scelta fatta da Franchini di parlare di arti marziali, letteratura e aneddotica personale tutto in una volta, ma dalla quale avrebbe potuto svilupparsi facilmente una valutazione diversa di scritture come "La letteratura come menzogna".
Franchini, tacitamente, evita di approfondire, e racconta di tanti
personaggi da palestra, di tanta letteratura giapponese, di libri sulla boxe
e di diari di guerra: la sua dichiarazione di intenti, in fondo, sta in
questo raccontare le cose, le persone, i fatti.

Marsilio 1996, 167 pagg.x20.000lire.

Diari di due donne ebree

Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma de Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Belforte&c. Editori, Livorno 2000

Ma la diaristica è letteratura? No, vero? Sì, vero? Va be', non importa.
Fatti veri, storie vere, vicende quotidiane ed ordinarie frammiste a drammi storici e collettivi: questa sovrastruttura è probabilmente ciò che rende tanto appassionante la lettura di due diari, pubblicati per iniziativa del Comune di Livorno, che raccontano le vicissitudini di due donne molto diverse tra loro che attraversano le stesse difficoltà e angosce.

Lea Ottolenghi ha 22 anni quando è costretta a lasciare Livorno e a cercare rifugio in Svizzera; Emma de Rossi Castelli ne ha già 75 quando deve sfollare nelle campagne e spostarsi varie volte per nascondersi alle deportazioni e scampare ai bombardamenti.
I diari di queste due ebree benestanti che, come molti altri, devono scappare e cercare di sopravvivere alle persecuzioni e alla guerra, non sono certo i diari di Paul Valery, letterariamente parlando. Tuttavia la freschezza della quotidianità e dei sentimenti (molte angoscie, qualche motivo di allegria) che trapelano in questi quaderni bastano ed avanzano a renderne la lettura appassionante e partecipe.

La loro situazione non ha ovviamente la drammaticità del campo di sterminio: entrambe (una appunto in un campo di rifugiati in Svizzera, l'altra tra i contadini della campagna livornese) riescono ad evitare il peggio. Eppure è proprio quella normalità violata, quella quotidianità piena di disagi, umiliazioni, preoccupazioni, incertezze che affiora nei loro diari a dare il senso del dramma con estrema veridicità e concretezza.
Sono due donne molto diverse, appunto. Lea è una ragazza giovane, allegra e piena di forza; nel suo diario, accanto ai continui motivi di sconforto e di tristezza, ci sono sempre anche le note allegre, a volte un po' infantili. Anzi, il periodo dalla metà del 1944 fino al ritorno a Firenze e il ritrovamento del fidanzato, è pieno di fatti positivi - nonostante la fame e la mancanza di notizie dai famigliari rimasti in Italia: sono pagine che comunicano la sensazione di come ogni piccola cosa riconquistata sia una festa.
Emma invece è introversa e pessimista, e nel diario dà sfogo soprattutto alla sua preoccupazione per i parenti dispersi e alle riflessioni religiose.
In tutte e due però, fin dall'inizio, è evidente la reazione alle leggi razziali e al loro progressivo indurimento: è una reazione di dolore e quasi incredulità nel vedersi considerate straniere e nemiche in casa propria, nella loro terra - e a dispetto del forte patriottismo che si respirava nelle loro famiglie. "Tutti i giorni - scrive Emma nel 1943 - si scrivono sui giornali articoli velenosi contro gli ebrei, che non possono essere in buona fede e sono una vera infamia.(...)Ho amato l'Italia con tutte le forze dell'animo mio. Nell'altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane. Ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. (...) Quando poi venne il fascismo a valorizzare la nostra vittoria, allora ho gioito! Povera ingenua, povera illusa! Non sapevo cosa avrebbe portato il fascismo!"

Qualche volta i diari la rimpiazzano, la letteratura - per fortuna non tanto spesso.