Wednesday, January 09, 2008

Michele Mari, "Verderame"


La copertina di "Verderame" (Einaudi 2007) è una vecchia illustrazione di Karel Thole - una vecchia copertina di Urania (questo lo dico per i fan di Michele Mari(*))
"Verderame" è un breve romanzo pseudoautobiografico. Si svolge nella casa di campagna dei nonni di Michele Mari (pseudo Michele Mari, meglio), trasformata per la bisogna narrativa dall'autore e dal suo amore per un certo tipo di fantastico. Si svolge nel 1969, avendo allora sia il protagonista, Michelino, che l'autore, Michele Mari, 13 anni e mezzo.
Almeno un altro racconto di Michele Mari si svolge nel medesimo spazio, "Euridice aveva un cane"; però la casa dei nonni ha tutt'altro aspetto, in quel racconto, essendo diverse le esigenze narrative. La casa dei nonni si trova a Nasco (in "Verderame"), ovvero a Scalna (in "Euridice"). Entrambi i toponimi, a quanto mi risulta, non esistono nel Varesotto; e sono quasi anagrammi l'uno dell'altro.
[Non credo che reggerò questo stile asciutto/semplice per tutto il post, nda]

Non sto facendo le pulci ai dati autobiografici contenuti nel romanzo: il fatto è che la trasformazione dei fatti attraverso un consapevole uso dell'immaginazione (letteraria, visionaria, infantile) è uno dei punti centrali di "Verderame", nonché uno dei leitmotif nell'opera di Mari.

La vicenda narrata in "Verderame" è infatti l'indagine del tredicenne Michele alla ricerca del passato di Felice, contadino 60enne, tuttofare della casa dei nonni, semianalfabeta e solitario, che sta perdendo la memoria.
Il Felice, perfetto esempio di bêtise benevola col suo aspetto "mostruoso" ( è un omone bruttissimo con una cicatrice e una grossa voglia sul viso, e maneggia impunemente i velenosi e bellissimi cristalli di verderame per le viti), fornisce gli indizi che il già dotto Michelino adopera per aiutarlo a ritrovare le cose che svaniscono nella sua memoria (svaniscono o si trasformano in convinzioni fantastiche, al limite della demenza).
In un certo senso "Verderame" è un giallo, come ha notato Stefano Giovanardi (mi pare) su Repubblica una settimana fa.
Le progressive rivelazioni di Felice sono vere malìe per la fantasia di Michelino, già perdutamente innamorato dei mondi di Stevenson, Melville, Hoffmann, Poe. E anche la fonte di tali rivelazioni - il "mostro" Felice - e la lingua con la quale sono narrate - un dialetto lombardo rurale, stretto ma comprensibile - danno a tali segreti disvelati un'ulteriore aura di mito.

Michelino è anche la voce narrante di "Verderame", ma spesso emerge la voce adulta che quelle vicende ricorda e racconta, cioè lo pseudo Michele Mari. In uno di questi punti il vero narratore parla della "mia ostinazione a rimanere bambino e non crescere mai, lo voglio adesso figuriamoci a tredici anni e mezzo..."
Sta in questa duplice identità e nella sua latente patologicità il cardine su cui poggia e si articola "Verderame"; ma i due doppi che si intuiscono nella voce narrante non sono il 13enne Michelino e lo pseudo Michele Mari adulto, bensì il bambino-adulto sognatore e immaginifico e il suo alter ego razionale che svolge con logica e concretezza la sua indagine, cercando di discernere ciò che è reale e ciò che è fantastico nelle parole di Felice.

Questa dualità tra immaginazione e realtà ricorre in altre opere di Mari: la si trova in varie figure di "Tutto il ferro della Torre Eiffel", a cominciare dal protagonista, Walter Benjamin; è all'origine del conflitto nell'adolescente Giacomo Leopardi in "Io venìa pien d'angoscia a rimirarti" - conflitto che sfocia in una "mostruosa" e fantastica malattia, la Licantropia; è incarnata, quella dualità, nei personaggi del capitano Torquemada, immobilizzato dalla cancrena, e del Secondo, Menzio, crudelmente e ottusamente materialista; e anche in "Rondini sul filo" un altro pseudo Michele Mari narratore ha due facce, una delle quali segnata da una morbosa, patologica e visionaria gelosia.
In "Verderame" le esplicite figure del doppio sono più d'una: lo stesso Felice ha in sé ad un tempo il contadino concreto e pragmatico e il "pazzo" che si è costruito un mondo popolato di terrifiche entità (il Gran Coniglio, le voci dei francesi sepolti nell'orto, le "lumache francesi" inviate da quelli a spiare Felice, le presenze ctonie nella cantina). Per Felice, inoltre, ci sono persone che hanno un doppio che sta dormiente e sepolto; una di tali persone è il nonno di Michelino, il cui doppio ha sostituito il "nonno di prima" da anni; ma anche el Michelin, confessa Felice, ha un doppio "morto" che potrebbe una volta o l'altra prendere il sopravvento e sostituire il Michelino che è amico di Felice.

Questo topos del Doppelgänger (riguardo al quale Michelino non manca di ricordare il film "L'invasione degli ultracorpi") si accompagna, nei libri di Mari, a quello della malattia: Felice ha una malattia mentale degenerativa, come si diceva; anche i personaggi delle altre opere di Mari che ho citato hanno tutti delle patologie, reali o fantastiche. E anche in "Euridice aveva un cane" la vicenda si sviluppa sul cambiamento segnato dalla malattia e dal ricovero della Flora: Michele, tanto legato a quella vicina e al suo cane Tabù, non si decide mai ad andarla a trovare in ospedale, quasi temesse di vedere spezzato l'incanto rurale che vedeva in Flora e nella sua casa contadina; finché Flora muore e di Tabù non si hanno notizie: e il senso di colpa del protagonista è un macigno.

Tornando a "Verderame" e tenendo presenti in comune con le altre opere di Mari, va sottolineato che il 13enne Michelino è l'unico personaggio, tra quelli combattuti nella dualità tra realtà e immaginazione, che vive in perfetto equilibrio nei due registri, senza malattia, senza conflitto. Ricordando (Goya) che "il sonno della ragione genera mostri", per il ragazzino appassionato lettore di romanzi, quei mostri sono bellissimi e seducenti, quasi che per lui l'aforisma potesse ribaltarsi: i mostri fanno sognare la ragione.
Magari è in questo senso che lo pseudo Michele Mari vuole restare bambino.

Ultima annotazione per gli anagrammi: oltre a (l)Nasca/Scalna, in "Verderame" c'è un passo dove il narratore pensa alla madre di Felice ("l'uomo del verderame") completamente cancellata dai ricordi del figlio: "...verderame, mare verde, madre vera, vera merda...". Se ce ne sono altri, di anagrammi, non li ho trovati.

(Ah, a me il libro è piaciuto assai.)
(*) Cfr. "Le copertine di Urania", in "Tu, sanguinosa infanzia"

Saturday, January 05, 2008

Gaddis, "Agapē, agape"

Ovvero: il senso dell'opera d'arte individuale nel mercato massificato della cultura

Rileggo una mia recensione di qualche anno fa (sul libro postumo di William Gaddis, "Agapē
, agape", tutt'ora non tradotto in italiano) e mi accorgo di come contenga spunti ancora stimolanti (il libro, non la rece). Mi pare persino che le parole di Gaddis prefigurino un uso del web per la letteratura e l'arte ancora oggi non raggiunto. Mi accorgo infine di aver completamente dimenticato ciò che mi era parso valido quando ho scritto la rece, che perciò ripropongo qui.

Lo straordinario, ultimo testo di William Gaddis esce ad alcuni anni dalla morte dell'autore (avvenuta alla fine del 1998), per sua esplicita volontà.
È un monologo di circa 90 pagine in cui uno scrittore malato terminale di enfisema polmonare (come Gaddis) cerca di ricapitolare e mettere insieme un testo al quale ha lavorato per decenni, un testo che doveva essere una storia della pianola meccanica negli USA come emblema della massificazione e devastazione della creazione artistica.

L'impianto autoreferenziale e autobiografico è fin troppo evidente fin dall'inizio: Gaddis raccolse davvero materiale su quell'argomento per almeno 40 anni, una quantità enorme di materiale per un'opera che poi decise di trasformare in un breve romanzo, "Agapē, agape", appunto.
In questa scelta - così come nella costruzione autoreferenziale - è contenuto in parte il senso del testo e le tesi che sostiene: la rinuncia a scrivere un testo desiderato per tutta la vita esemplifica infatti il soccombere dell'artista singolo di fronte alla società tecnologicamente massificata; e tuttavia questa rinuncia non è una sconfitta, come si deduce dalla ultime pagine del testo.

Il protagonista di "Agapē, agape" denuncia dunque l'uccisione dell'artista per effetto della tecnologia, della massificazione del gusto, della democrazia: una tesi indubbiamente elitarista e reazionaria, e certamente non nuova (Eliot, Pound, Jünger, Zumthor si muovono su corde simili, per citare i primi che mi vengono in mente):
"...because that's what it's about, that's what my work is about, the collapse of everything, of meaning, of language, of values, of art, disorder and dislocation wherever you look..."
E ancora: "...where individual is lost, the unique is lost, where authenticity is lost not just authenticity but the whole concept of authenticity, that love for the beautiful creation before it's created that that, (...) That natural merging of created life in this creation in love that transcends it, a celebration of the love that created it they called agape, that love feast in the early church, yes."

La tesi apocalittico-elitarista per cui l'arte massificata può solo soddisfare l'entertainment e la tecnologia ha permesso ciò (Gaddis cita vari autori, persino Flaubert quando dice "L'unico sogno della democrazia è di elevare il proletariato al livello di stupidità della borghesia") è radicale e non nuova, appunto - tanto meno condivisibile.

Ma il senso del testo di Gaddis, IMHO, non è questo.

Il suo citare Tolstoj (La sonata a Kreutzer), Melville (Moby Dick), Bernhard (Il soccombente, vero modello ispiratore di Agape, agape, tanto che Gaddis scrive nei suoi appunti che sembra che Bernhard abbia rubato le sue idee ancora prima che lui le avesse), du Maurier (Trilby), Huizinga, Freud etc. non serve ad argomentare quella tesi bensì a indicare la affinità tra menti diverse in epoche diverse e la fratellanza (agàpe, nel contesto) tra queste individualità che è il risultato ancora possibile della creazione artistica - risultato e motore ancora possibile, anche oggi, della creazione artistica.

"...they'd say I'm afraid of the death of the élite because it means the death of me of course I can't really blame them, I've been wrong about everything in my life it's all been fraud and fiction, let everybody down except my daughters..."
Gaddis parla di sé, in realtà. E nelle ultime pagine il gioco del racconto autoreferenziale svanisce ed è l'autore che parla direttamente al lettore, senza più gioco o ironia (forse da ciò, anche, è venuta l'esigenza di imporre alcuni anni di attesa, dopo la sua morte, prima di pubblicare il testo).

Alcuni versi di Michelangelo (presenti in tutte le opere di Gaddis) esplicitano questo riferimento autobiografico: "O Dio, o Dio, o Dio/ Chi m'ha tolto a me stesso/ Ch'a me fusse più presso/ O più di me potessi, che poss'io?/ O Dio, o Dio...".
Lo scrittore anziano e malato, di fronte alla stesura di un'opera che deve rinunciare a scrivere, punta l'attenzione su quel "se stesso che avrebbe potuto fare di più", sulle possibilità di un artista da giovane frustrate dal mercato tecnologicamente massificato. Frustrate perché? Forse per aver cercato il consenso e l'immortalità in un'epoca in cui ciò è impossibile se non rinunciando a se stessi, appunto ("Quale immortalità se oggi c'è una nuova generazione ogni 4 giorni?", dice Gaddis).

La sconfitta individuale (del Soccombente Friedrich o dello scrittore di "Trilby" Svengali; ma anche di Gaddis che scrive "Il mio primo libro è diventato il mio nemico") è dunque frutto di un'ambizione troppo egocentrica e soprattutto male indirizzata: non il mercato massificato può fruire dell'opera creata dal "se stesso che può fare di più", ma proprio l'autore e soprattutto altri uomini con una sensibilità affine alla sua. In questo senso l'opera d'arte senza compromessi ha ancora senso.
Una tesi fino in fondo elitarista, senza dubbio, ma che assume credibilità come 'confessione' individuale (per di più sul letto di morte).
Oltre a tutto ciò, non bisognerà scordare di dire che "Agapē, agape" è un libro bellissimo.