Tuesday, August 01, 2006

Francesco Guccini, "Croniche epafàniche" e "Vacca d'un cane"

Dei primi due volumi di affabulazioni autobiografiche del pavanese/modenese Guccini è difficile che io possa parlare con una qualche obiettività, a causa dell'affetto che porto per certi dei luoghi, delle cose, della cultura narrata. Pazienza.
In Croniche epafàniche il Guccini racconta l'infanzia pavanese (Guccini è del '40), nel mulino degli zii, durante la guerra e un po' anche dopo (molte estati là trascorse, anche dopo il trasloco in Modena). Non c'è una storia e nemmanco un filo cronologico, nel racconto; o, se ce n'è, si perde in un divagare per aneddoti, parentame, oggetti, parole, sapori (e non sto parlando di un difetto, per questo che fu il primo libro vero e proprio del cantautore emiliano).
Ci sono gli americani, che arrivano e portano e lasciano tonnellate di roba (per lo più esplosiva, ma mica solo quella); roba usata e riciclata poi per anni, in molteplici usi. Degli americani 'un si butta via nulla, si direbbe. ("Poi la guerra è finita, e gli americani l'hanno vinta. E noi? No, noi dice che s'è persa. Maaa?! O non si stava tutti dalla parte degli americani, noi?")
Poi c'è il fiume, il paese, le persone e la montanarità allegramente grezza e schietta che il cantastorie si porterà appresso sempre, fino ad oggi, con fiera e ironica evidenza. Il tutto nell'affabulazione ricca di dialetto (dubito che chi non conosce quella parlata là possa leggere colla giusta intonazione - ehm - semantica quel testo) che costruisce un affreschetto modesto e privo di pretenziosità (sempre la qualità maggiore del Guccini, questa mancanza di pretese) di quella che è la sua mitologia personale (quella che ciascheduno ci ha la sua, no?, e chi non ce n'ha, poeretto lui), quella dei luoghi e delle persone dell'infanzia - fortificata nel caso di FG dall'aver lasciato i luoghi della prima infanzia, e averli poi ritrovati.
E' un racconto bellissimo - sono di parte, son di quelle parti - e sa il cielo se è difficile trovare descrizioni della provincia natia che non esondino retorica e proprie seghe.
"Vacca d'un cane", il secondo libro, è invece la fanciullezza e adolescenza modenese del Noster, nella periferia di una provincia del dopoguerra, ovattata dal nebbione e doverosamente costellata delle monelerìe del ragazzino un po' grezzo ma mica fesso, e adeguatamente crudele; dalle figurine e dalle gare coi tappi fino alle ragasine, le mine; dai primi cinemi al rochenrol, co' 'sto mito americano amaramente irraggiungibile.
Fino alla luce della rivelazione, dopo la visione di un filme con Elvis: ragazzi, se facciamo un complesso anche noi si intorteranno più troglie di sicuro!
Poi verso la metropoli bulogneise, a suonicchiare nei locali e cercar figa -costante ovvia - fino alla chiusa del ragazzotto montanarprovinciale che, mentre si spella sul palco di un localino, si vede guardar di sopra in sotto da una bella mina universitariamente aristocratica che aveva frequentato, e si dice "col cazzo che farò 'sto mestiere tuta la vita!"
La dote di questi librini giocosi - sono di parte, già lo dissi - è nel modo vero, ironico e fintamente naif con cui il Guccini racconta quel suo ambiente della memoria, con quella affabulatoria poesia che sa cantarle (appunto) giuste senza darsi troppa importanza. Non è mica una prosa naif: è costruita e consapevole; però funziona, perché, come dire, lo stile aderisce come un guanto al contenuto.
L'ultimo capitolo della saga autobiografica di Francesco Guccini è "Citanova blues"; ma non l'ho mia ancora letto!

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