Saturday, August 19, 2006

Marco Lodoli, "La notte"

Racconto lungo di Lodoli, meno surreale - un po' meno - di altre sue cose; ben scritto, come sempre, con il consueto, abile equilibrismo tra lirismo e ironia, assicurato anche stavolta dagli elementi di irrealtà contenuti nella vicenda.

La vicenda è esile: si racconta in flash back la storia di Constantino,
mentre costui viene portato in giro per Roma, di notte, da due figuri,
dipendenti come lui del misterioso Pazzo; e Costantino pensa che i due siano incaricati di ucciderlo. Il protagonista è un uomo inquieto, semplice, ingenuo (un po' deficiente, diciamolo), attraverso le cui sensazioni Lodoli tesse descrizioni e immagini che, assieme all'equilibrio della lingua, sono la sostanza di questo breve
romanzo.

Costantino consegna pacchetti per conto di questo misterioso Pazzo -
presumibilmente una specie di boss - che gli manda le istruzioni su foglietti scritti con una prosa ampollosa e talvolta filosofeggiante. In séguito Costantino viene incaricato di curare il parco della villa del Pazzo, parco dal quale non può uscire; e gli vengono affidati prima un cavallo, poi un falco, infine un lamantino di cui Costantino si innamora.
L'innamoramento con questa sirena è la situazione che, più di ogni altra, evidenzia il conflitto tra il mondo interiore, surreale, di Costantino e la crudezza della realtà in cui vive. Inoltre questa ambigua e impossibile 'relazione' non può non ricordarmi i rapporti tra i marinai e i meravigliosi e indefiniti esseri marini in La stiva e l'abisso di Michele Mari.

Taccio l'esito, ancora più surreale.

Come ho già detto, Lodoli continua a giocare con l'ambiguità tra lo scrivere non-storie (incentrando il suo lavoro su toni, atmosfere e descrizioni) e il
rifiuto di fare formalismo tout court. In La notte però questo
equilibrio si sposta a favore del lirismo e della coerenza della trama;
quindi meno ironia, meno invenzione, meno situazioni fantastiche. E il
risultato è forse più debole (rispetto per esempio a Il vento).
Resta un percorso sicuramente originale, nel panorama letterario italiano.
(Grazioso dipinto di Di Stasio in copertina (non dei peggiori).)


Postilla: a ripensarci adesso, diversi anni dopo aver scritto questa scheda, La notte me lo ricordo assai migliore di quanto non appaia qui sopra. Evidentemente quella scrittura è capace di lasciare certi ricordi e certe impressioni, e non è una cosa da poco.

Papiro e moschetto

Settecento e rotte pagine più appendici e indici corposi. "Il papiro di Dongo" (Adelphi), ultima e recente opera di Luciano Canfora, è un librone. Un librone che parla della storia della Papirologia italiana durante il Ventennio e fino ai primi anni '50.
Argomento molto specialistico, no? Roba strettamente riservata ai filologi, parrebbe. Eppure io che di papirologia non sapevo niente, di filologia pressoché idem, l'ho letto rapidamente e con soddisfazione (e nemmeno sono culturalmente masochista, almeno in questo caso). Come mai? Me lo sono chiesto.

Il libro di Canfora è un libro di storia a tutti gli effetti; il resoconto di una ricerca storica puntuale e meticolosa, col minuzioso esame comparativo delle fonti e tutti gli altri crismi. E tuttavia è anche un grande racconto: senza nulla concedere all'aspetto narrativo o all'aneddotica, Canfora ripercorre le vicende professionali, politiche e - in parte - personali dei maggiori filologi italiani di quel periodo: il lavoro sui papiri (trascrizioni e traduzioni), i contatti internazionali, gli scavi archeologici, le lotte e le bassezze finalizzate al prestigio personale e alla gestione delle cariche accademiche e delle cattedre.
"Il papiro di Dongo" esamina soltanto queste vicende. Tuttavia è avvincente. Come mai?
La risposta che mi do non sta solo nella capacità narrativa di Luciano Canfora (che di opere divulgative e ne ha scritte tante); no, secondo me la risposta sta nel fatto banale ma raramente ricordato che la storiografia è anche narrazione; è cronaca; è racconto. Il rigore scientifico e l'obbiettività non escludono necessariamente questo aspetto: la storiografia è narrazione, e può esserlo anche quando è fatta bene (non solo, cioè, quando è mistificazione ideologica).
Certo, le vicende narrate, in questo caso, hanno in sé una certa ricchezza: principalmente il fatto che si inseriscono nel Fascismo, nell'amministrazione delle Università da parte del regime, nei maneggi di potere per ottenere fondi, promozioni, cattedre, pubblicazioni. Non a caso i personaggi costantemente sullo sfondo delle vicende narrate sono Gentile e Bottai, ovvero il filosofo più vicino al regime mussoliniano e il ministro della cultura fascista.

In primo piano, invece, ci sono i filologi: Medea Norsa, Girolamo Vitelli (fino alla sua morte nel 1932), Goffredo Coppola, Achille Vogliano. Nelle storie di questi studiosi di fama internazionale ci sono anche due diversi modi di rapportarsi con il regime: quello di chi cerca di avvicinarvisi il più possibile e cavarne vantaggi personali (Coppola, Vogliano) e quello di chi lo accetta chiudendo gli occhi e cercando di non averne svantaggi (ma senza entusiamo). Il campione dell'opportunismo, della meschinità, della scorrettezza e dell'ambizione è Achille Vogliano: dopo averne lette le 'gesta' durante il Ventennio, fa veramente impressione vedere il modo in cui, dopo il 25 aprile '45, tenta di difendersi dall'epurazione e di riciclarsi in un memoriale che Canfora analizza spietatamente (per altro sia Vogliano che moltissimi altri accademici italiani profondamente compromessi col regime fascista riescono a uscire alla fine sostanzialmente intoccati dal cambio di regime).
Tra quelli che dal Fascismo rimasero distanti, pur senza opporvisi, ci sono invece Girolamo Vitelli (decano dei papirologi italiani, già senatore giolittiano e 73enne all'epoca della marcia su Roma) e la sua allieva e collaboratrice Medea Norsa; quest'ultima è una figura che esce davvero gigantesca dalla ricostruzione di Canfora; e tuttavia, dopo la morte di Vitelli, sarà continuamente mortificata e ostracizzata (pur essendo la maggiore studiosa nel suo campo, non avrà mai una cattedra e finirà cacciata senza ragione anche dall'Istituto papirologico fiorentino ove aveva lavorato tutta la vita), e ciò accadrà solo in minima parte a causa dell'origine ebrea del padre (le peripezie burocratiche che la Norsa affronta per uscire indenne dalle leggi razziali del '39 hanno del grottesco: una perla è la richiesta, da parte del Ministero di Bottai, del certificato di nascita della madre per stabilirne "l'italianità": senonché la madre della Norsa, triestina, è nata e morta in territorio asburgico ancora 'irredento'!)
L'ultimo protagonista dello spaccato storico di Canfora è Goffredo Coppola. E' un caso a sé stante: arrivista e ambizioso ma anche sinceramente entusiasta sia nelle idee politiche che nel lavoro filologico, Coppola è per molti anni vicino al suo maestro Vitelli e alla Norsa. Ma è anche sempre più legato al Fascismo; e dal '37-'38 la sua ascesa politica nel regime è costante, non solo come corsivista del "Popolo d'Italia" (dove pubblica articoli così violentemente antisemiti da far impallidire Goering) ma anche come dirigente politico spietato e cinico; soprattutto dopo l'8 settembre 1943 e nella breve parabola della RSI. Infatti Coppola, ormai considerato un cieco fanatico anche all'interno del Partito Fascista, muore fucilato a Dongo assieme ai dirigenti superstiti della Repubblica Sociale (ma anche per lui non mancherà un tentativo di riabilitazione postuma - politica e non professionale -già nei primi anni del dopoguerra). E' ovvio aggiungere che la sua amicizia e collaborazione con la Norsa diventa ostilità a partire dal '37-38.
Ed è nel quadro di questa amicizia divenuta ostilità che si percorre infine la vicenda dell'ultimo protagonista del libro di Canfora: il papiro che dà il titolo all'opera. In realtà questi frammenti delle "Elleniche" sono più che altro un casus belli, sia sul fronte accademico che su quello dei rapporti personali: ne lascio la vicenda, dal ritrovamento nel '33 al dopoguerra, agli eventuali lettori; così come lascio volentieri a chi lavora nell'università il raffronto tra la meschinità di quegli anni e la situazione attuale: si invita semmai a darne spassionato resoconto.

Tuesday, August 01, 2006

Francesco Guccini, "Croniche epafàniche" e "Vacca d'un cane"

Dei primi due volumi di affabulazioni autobiografiche del pavanese/modenese Guccini è difficile che io possa parlare con una qualche obiettività, a causa dell'affetto che porto per certi dei luoghi, delle cose, della cultura narrata. Pazienza.
In Croniche epafàniche il Guccini racconta l'infanzia pavanese (Guccini è del '40), nel mulino degli zii, durante la guerra e un po' anche dopo (molte estati là trascorse, anche dopo il trasloco in Modena). Non c'è una storia e nemmanco un filo cronologico, nel racconto; o, se ce n'è, si perde in un divagare per aneddoti, parentame, oggetti, parole, sapori (e non sto parlando di un difetto, per questo che fu il primo libro vero e proprio del cantautore emiliano).
Ci sono gli americani, che arrivano e portano e lasciano tonnellate di roba (per lo più esplosiva, ma mica solo quella); roba usata e riciclata poi per anni, in molteplici usi. Degli americani 'un si butta via nulla, si direbbe. ("Poi la guerra è finita, e gli americani l'hanno vinta. E noi? No, noi dice che s'è persa. Maaa?! O non si stava tutti dalla parte degli americani, noi?")
Poi c'è il fiume, il paese, le persone e la montanarità allegramente grezza e schietta che il cantastorie si porterà appresso sempre, fino ad oggi, con fiera e ironica evidenza. Il tutto nell'affabulazione ricca di dialetto (dubito che chi non conosce quella parlata là possa leggere colla giusta intonazione - ehm - semantica quel testo) che costruisce un affreschetto modesto e privo di pretenziosità (sempre la qualità maggiore del Guccini, questa mancanza di pretese) di quella che è la sua mitologia personale (quella che ciascheduno ci ha la sua, no?, e chi non ce n'ha, poeretto lui), quella dei luoghi e delle persone dell'infanzia - fortificata nel caso di FG dall'aver lasciato i luoghi della prima infanzia, e averli poi ritrovati.
E' un racconto bellissimo - sono di parte, son di quelle parti - e sa il cielo se è difficile trovare descrizioni della provincia natia che non esondino retorica e proprie seghe.
"Vacca d'un cane", il secondo libro, è invece la fanciullezza e adolescenza modenese del Noster, nella periferia di una provincia del dopoguerra, ovattata dal nebbione e doverosamente costellata delle monelerìe del ragazzino un po' grezzo ma mica fesso, e adeguatamente crudele; dalle figurine e dalle gare coi tappi fino alle ragasine, le mine; dai primi cinemi al rochenrol, co' 'sto mito americano amaramente irraggiungibile.
Fino alla luce della rivelazione, dopo la visione di un filme con Elvis: ragazzi, se facciamo un complesso anche noi si intorteranno più troglie di sicuro!
Poi verso la metropoli bulogneise, a suonicchiare nei locali e cercar figa -costante ovvia - fino alla chiusa del ragazzotto montanarprovinciale che, mentre si spella sul palco di un localino, si vede guardar di sopra in sotto da una bella mina universitariamente aristocratica che aveva frequentato, e si dice "col cazzo che farò 'sto mestiere tuta la vita!"
La dote di questi librini giocosi - sono di parte, già lo dissi - è nel modo vero, ironico e fintamente naif con cui il Guccini racconta quel suo ambiente della memoria, con quella affabulatoria poesia che sa cantarle (appunto) giuste senza darsi troppa importanza. Non è mica una prosa naif: è costruita e consapevole; però funziona, perché, come dire, lo stile aderisce come un guanto al contenuto.
L'ultimo capitolo della saga autobiografica di Francesco Guccini è "Citanova blues"; ma non l'ho mia ancora letto!